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13. La dura verità della Repubblica

Finisco il primo capitolo della missione. Il mio viaggio in Repubblica Centrafricana è giunto al termine in maniera divertente sebbene possa descrivere la missione come fallimentare. Alla fine sono riuscito a salvare “capra e cavoli”. Non mi pento affatto di essere venuto qui. Soprattutto perché negli ultimi giorni sono riuscito a penetrare un po’ di più nella mentalità del centrafricano medio, cercando di passare del tempo nei quartieri popolari e scoprendo il calore e la gentilezza di persone di persone che sono diventate centrafricane non per loro volere. Ma anche discutendo in maniera onesta, ascoltando le loro idee, i loro sospetti, i loro dubbi e i loro desideri. “Pace, in cambio di tutto quello che volete. Ma dateci la pace”. Mi ricorda davvero l’Afghanistan: “basta” – dicono –“ lasciateci vivere come vogliamo”.

 

Dopotutto, cosa significa esattamente essere Centrafricano? Nulla. Il Centrafrica è una “deformazione geografica e geologica” come suol dire l’attivista dei diritti umani Jopseh Bindoumi. Passaporti, nazionalità. Tutte cazzate. Ma questo vale un po’ per tutti, come in Europa d’altronde. È un discorso che ho già toccato. I passaporti, la più grande causa di conflitti nel mondo e la più subdola forma di discriminazione. Si combatte, si litiga, si fanno cose impensabili nel nome di una nazione, una bandiera. E cosa si ricava? Lacrime, dolore, sofferenza. La nazione, una costruzione umana creata per dividere, fa solo danni. E noi umani, non ce ne accorgiamo nemmeno. Anzi fomentiamo quest’opera diabolica, riconoscendoci per nazioni, passaporti, creando stereotipi spesso non veri. Volete la pace nel mondo? Le frontiere politiche sono il primo ostacolo.

 

La partenza da Bangui mi riserva un ultimo scherzo lunedì mattina: mi cancellano il volo per Abidjan,  la mia prossima destinazione. La Costa d’Avorio, giusto un piccolo scalo tecnico per raggiungere il Burkina Faso, dove continuerò la seconda parte della mia missione. Un guasto tecnico dell’aereo, dicono. L’aereo è a Douala, in Camerun. La cosa mi puzza. Ma Cosa ci si può fare? L’aeroporto di Bangui ha blackout costanti, invece del metal detector, si fanno i controlli a mano perché non funzionano le macchine. Il degrado più totale. Nella sala il calore aumenta con l’avanzare della giornata. Ci sono più voli umanitari che altro. MSF, Croce Rossa, Onu. Non arrivano molti voli di linea, il che significa che se il volo è cancellato, non ce ne sono 10 altri che partono. Fa niente, mi pagano una stanza in un hotel cinque stelle. Mi mette a disagio, visto la condizione generale del paese. Dicono di essere pronti martedì mattina. Quando? “Vi chiameremo”, dicono al telefono. Fino all’ultimo non si capisce mai come quando dove e cosa. Non si capisce nemmeno se ci verranno a prendere o se l’aereo arriverà. Arriverà? In sha’a Allah – se Dio vuole (mah, solitamente non promette bene). Mentre riceviamo i voucher allo sportello della compagnia, un signore dice che è colpa dei camerunesi. Come biasimarlo. Non mi sorprenderebbe. “Non avevano voglia di scaricare le valigie” dice. L’affermazione mi fa comunque ridere, pensando ai camerunesi. È detto in modo molto simpatico, niente di cattivo. “Lei non capisce nulla di trasporti, io ho lavorato per anni nel settore e le dico che questo cose succedono”, risponde un altro passeggero. “Non è vero, è perché non volevano lavorare, sono professore in diritto dei trasporti” ribatte ancora il primo. Ridiamo tutti. Anche se mi girano le scatole, la prendo con filosofia. Solitamente si perdono le staffe facilmente in queste situazioni. Ma in questi giorni ammetto di essere stato molto “zen”. Sono emotivamente distaccato. O almeno cerco di esserlo.  Faccio un paio di chiamate, ne approfitto per finire qualche intervista, salutare chi non ho potuto vedere. Verso le 4 del pomeriggio mi siedo infine, prima dell’inizio del coprifuoco delle 6, in un bar al lato del fiume Ubangui, il confine naturale fra Repubblica Centrafricana e il Congo Kinshasa. Simbolo della gara alla conquista coloniale europea. Il fiume diventò il confine fra belgi e francesi. Il re Leopoldo del Belgio e le sue mire espansionistiche nel Congo, si fermarono qui, con i francesi che riuscirono a scoprire i territori a nord del fiume per primi nel XIX secolo. Contemplo il fiume e il lato congolese insieme a Gomez, un ragazzo che vuole confidarmi una storia incredibile. Le sponde verdeggianti e brulle, la collina dall’altra parte che è già un altro stato – anche se, come detto prima, cosa cambi da qui a lì lo sanno solo i politici. Le piroghe di legno, scavate a mano e ricavate da tronchi interi, sono ormai ferme. Di giorno, decine di lavoratori escono sul fiume spingendole con delle asticelle di legno lunghe e sottili che permettono di toccare il fondo e dare una spinta, per andare a raccogliere della sabbia da rivendere. Sabbia che serve poi a creare il materiale per costruire le case di tutta la città. Solitamente di chiama “Banko”. Non so qui che denominazione abbia.

 

Negli ultimi giorni la temperatura è salita. È più secco vista la stagione. Anche se fare pochi metri, per me significa cominciare a sudare. La notte le zanzare mi assaltano. Quando posso, non metto la zanzariera, dipende. Sono zanzare piccole, quasi silenziose, ma letali. Sono molto poche rispetto alla stagione delle piogge. A partire dalle 9 di sera, l’aria si fa più respirabile. Oppure verso le 5 del pomeriggio, quando il cielo si annerisce, annunciando l’arrivo della pioggia con sguardo minaccioso e oscurando il territorio intero. Scacciando il sole e l’azzurro che ne fanno risplendere i colori. Quale ambasciatore della pioggia, il vento si innalza e si rafforza, trasportando con sé polvere rossastra e foglie secche cadute dagli eucalipti o dagli alberi sparsi sporadicamente nelle vie cittadine.

 

Quando la pioggia arriva, si scatena sui tetti in lamiera arrugginiti e sull’asfalto con una potenza esorbitante e incessante, facendo rimbalzare le sue gocce con una tale potenza da sembrare lapilli vulcanici e che formano tanti piccoli crateri, creando pozzanghere marroncine e portando una sensazione di freschezza. “È la prima pioggia della stagione secca” dice Saint Clair. Forse anche l’ultima.

 

Mentre si scatena l’inferno, un taxi giallo si ferma in mezzo alla strada facendo scendere i 6 o 7 passeggeri stipati nel veicolo, che posano i piedi in pozzanghere color rame create dalle numerose buche dell’asfalto e dal terriccio rosso. Non appena si svuota, una massa di persone accorre al finestrino del conducente per reclamare il proprio posto e fuggire alla furia della natura. Chi non ha scelta continua a camminare, quasi immergendosi sott’acqua, abbandonato al destino di bagnarsi completamente. Poi entra in scena il temporale, come se stesse dettando degli ordini militari, incrementando l’autorevolezza delle precipitazioni e poi, infine, dare anche l’ordine di cessare l’assalto. È allora che entra in scena la cavalleria: un’ondata di umidità devastante emanata dal suolo, che crea un effetto simile a quello di un hammam turco.

 

La pioggia si fa sempre più rara. Sono passati giorni. Niente più azione. Come la guerra. Fortunatamente. A Bangui, niente si muove (anche se nelle province i combattimenti continuano). Ma si combatte duramente nell’entroterra. Le forze armate centrafricane (Faca) respingono gli assalti dei ribelli, nascosti nella foresta e tendendo imboscate. A Bangui, dopo l’ultimo assalto della Coalizione patriottica per il cambiamento del 13 gennaio, tutto sembra sotto controllo. La Minusca (le forze dell’Onu) pattugliano insieme alle Faca e ai ruandesi. I russi si vedono molto poco. Quando appaiono, sono scortati da soldati centrafricani. Bangui, non è altro che un grande villaggio diventato capitale per caso, che sembra ospitare più soldati Onu e Ong internazionali che abitanti. Chissà con quali profitti. Ong che trasportano personale ovunque per la città con blindati 4x4 da 200 mila dollari l’uno, mentre le forze dell’Onu, soprattutto portoghesi, bengalesi, burundesi e ruandesi, sorvegliano le zone del PK0, il primo arrondissement. Siamo a Parigi? No già, siamo in quello che veniva chiamato l’Ubangi-Chari, un territorio ostile e inesplorato ma contestato sia dai francesi che dai belgi già nel XIX secolo e usato dai francesi come zona cuscinetto per proteggere il Congo dalle mire tedesche e inglesi (i primi presenti in Camerun fino alla fine del primo conflitto mondiale, i secondi in Sudan e Uganda) e da spolpare di tutte le sue risorse (compresi gli schiavi, il caucciù e poi le miniere). Il confine del fiume Ubangi è stato deciso alla fine del secolo e confermato con la conferenza di Berlino del 1885 anche se nessuno era certo della morfologia e del territorio. La Francia, essendo la prima ad aver esplorato il territorio, si è aggiudicata il controllo. Fa capire come gli europei giocassero ai coloni da soli, facendo e decidendo tutto loro, senza il minimo ritegno. E a Berlino si firmarono pure delle convenzioni su come farlo, come rispettare i confini per andare d’accordo e non creare “incidenti”. Le popolazioni indigene erano parte del pacchetto “chi primo arriva meglio alloggia”.

 

Per strada, alle 6 del mattino l’afa si fa già sentire. La gente è già al lavoro dalle 5. La giornata è già nel vivo. La popolazione si alza presto. Chi va al campo, chi prepara la giornata in casa prima di andare in ufficio e i commercianti allestiscono le bancarelle. Si inizia molto presto e si finisce prima. Alle 6 di sera è già notte e ora, con il coprifuoco, bisogna rimanere in casa. Le giornate all’equatore durano esattamente 12 ore. Le persone percorrono il tragitto per andare a lavorare, i ragazzi vanno a scuola. La gente apre i botteghini, comincia a vendere i prodotti, i taxi moto trasportano 5 o 6 persone alla volta. È bello vedere scene di vita quotidiana senza che nessuno porti mascherine (tranne la comunità internazionale, chiusi e blindati dietro i vetri antiproiettili). Mi siedo di fianco alla piazza dei martiri, osservando e preparando la mia macchina fotografica per fare qualche scatto. Si avvicina un soldato, chiedendomi come sto, se sono giornalista, se sono francese o americano. Mi dice gentilmente che fra poco dovrebbe cominciare una marcia per richiedere ad alta voce alla comunità internazionale di togliere l’embargo di armi contro il governo centrafricano imposto dal consiglio di sicurezza dell’Onu (e ultimamente riconfermato per volere della Francia, che ha posto il veto ala richiesta della Russia di toglierlo). L’embargo è uno dei problemi principali di tutta questa vicenda. Dal 2013, le Faca non possono rifornirsi in maniera adeguata. E ora, si scontrano con miliziani ben addestrati e ben armati. La ministra della Difesa, Madame Koyara, me lo dice seduta al tavolo: “com’è possibile che loro combattono con 120millimetri e noi solo con 14”? per chi non ha idea di armi: 14 millimetri è il diametro di un mitragliatore, mentre 120 sono già pezzi di artiglieria, come mortai o cannoni. Insomma, armi che possono fare la differenza. Nel 2016, la Francia ha ritirato la sua missione (Sangaris), dopo l’elezione del presidente Touadéra, offrendo in cambio 1400 kalashnikov arrugginiti provenienti dalle missioni francesi nel corno d’Africa. “I francesi hanno addestrato i nostri soldati con armi di legno” tuona Koyara, abbastanza scioccata. Ma sono tutte cose che non si possono dire. Guai a criticare la Francia, la repubblica, la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza. Insomma, con i problemi logistici nell’esercito, la Russia ha portato un chiaro aiuto al governo. Per carità, criticato a giusta ragione, visto che spesso il presidente è accusato di avere assoldato Russi e altri per la propria protezione e non della popolazione. Insomma, una guardia pretoriana al proprio servizio.

 

Racconti di un paese difficile ma pieno di bellezza. Il paese che non esisteva, come dicono in molti. O l’ultimo pezzo vuoto sulla carta d’Africa. Un detto provocatorio ma che fa capire le origini di questa nazione martoriata da crisi e guerre. Una terra di passaggio, un baluardo francese che oggi loro stessi rivendicano ancora quasi fosse casa loro. La stampa francese è parziale, in maniera subdola. Ma è l’unica che si interessa di questo posto.

 

Domenica mattina, il mio ultimo giorno, ho deciso di rispolverare le mie doti calcistiche. Doti, insomma. Non sono mai stato una cima. Alle 6 del mattino ci siamo ritrovati con i ragazzi del quartiere Ben-Tsvi per giocare a pallone al liceo dei martiri, di fronte allo stadio nazionale (dove dovrebbe giocare la nazionale di calcio, anche se non penso che la FIFA permetta di competere su un manto erboso che sembra quello che si trova a 3 mila metri sulle alpi).

 

Prima di andare in chiesa, le persone fanno un po’ di sport (la domenica, la messa in chiesa è sacra. Tutti si vestono con gli abiti più eleganti che hanno nell’armadio per andare al ritrovo settimanale con il signore. Io non ci penso nemmeno. Diciamo che pure quando vivevo in Ruanda in una missione, alla fine Padre Patrice aveva rinunciato a chiamarmi perché mi rifiutavo categoricamente e lui rideva).

 

Alle 6 la temperatura è già troppo calda. Si fa subito insopportabile. Il campetto mi ricorda molto le partitelle di quando eravamo piccolini e giocavamo alla bell’è meglio ovunque capitasse di riuscire a delimitare uno spazio di gioco. Il terreno è sconnesso, con radici di alberi grosse come pali della luce, tronchi e cartelli arrugginiti a fare da ostacolo. Alcune pozzanghere di fango e qualche buca rendono le cose più divertenti. Non ci sono le linee laterali, ma solo quelle di fondo, calcolate ad occhio e croce a dipendenza se la palla la manda fuori un giocatore di una squadra o di un'altra. Ma si gioca come si può. Le porte sono piccole, della grandezza di due palloni e composte da pali di ferro, saldati da qualche ferramenta. Più difficile segnare. “It’s game time”: grandi contro piccoli (petit, in Africa si usa spesso per descrivere una persona più giovane, adolescente o ventenne). L’ultima volta che avevo giocato a calcio -ricordo- era in una palestra di Kabul nel 2019, dove segnavo cimentandomi in acrobazie scoordinate ma efficaci. Non gioco spesso a calcio perché ho paura di infortunarmi facilmente e…lo ammetto non sono una cima. Ma mi piace moltissimo, lo ammetto. È uno sforzo muscolare completamente differente dalla corsa estrema. Dopo 20 minuti dò il cambio a un altro ragazzo, così da lasciare spazio a tutti. I ragazzi corrono, si muovono agilmente. Io scivolo sulla terra battuta, riempiendomi di polvere più che altro. Continuo a sentire il mio nome “F…, F…”. Sarà forse una parola in Sango (lingua nazionale)? O mi prendono in giro? Oppure non capisco, perché ogni volta che lo dicono non sono mai io al centro dell’azione. Alla fine scopro che un'altro ragazzo si chiama proprio così. L’ambiente è molto bello. Sono tutti un po’ “veneziani”, cioè, non passano mai la palla o la passano troppo tardi. E Saint Clair, da buon lavativo, si piazza in attacco aspettando la palla. È come giocare in uno in meno. Ma ha il guizzo, ed è lui a segnare l’unico gol. Esultando, si getta sull’unico metro quadrato di erbaccia secca che c’è. All’inizio ho pensato che si fosse rotto qualche cosa. Un ragazzino porta alcuni sacchettini di plastica pieni di acqua purificata per dissetare tutti. Molte persone, per ricavare qualche soldo in più, hanno installato un purificatore d’acqua in casa, per poi venderla in strada. Molto comodo. Mentre un ragazzo in campo sta giocando con l'acqua in mano, riceve una pallonata che lo colpisce diritto sul braccio, facendo esplodere il sacchettino a mo’ di bomba. Un momento di divertimento e di gioia assoluta. Finisce uno a uno. Io sono pieno di terra rossa, sudato. Alla fine, prendo un moto taxi e torno a farmi la doccia a casa. Divertito e soddisfatto.

 

I moto taxi sono molto comodi, economici (circa mezzo euro per una corsa che con un taxi costerebbe il triplo) e veloci, siccome si infilano nel traffico. Non menzioniamo la sicurezza (immagino solo i poliziotti svizzeri). Molti incidenti capitano ogni anno perché molti autisti non hanno la patente e le strade, beh…sono quel che sono. È pericoloso anche perché la gente guida di fretta e spesso non hanno la patente per davvero. Mi viene spesso voglia di dire loro: “fammi guidare che facciamo prima”. Il governo, da due settimane ha però deciso di proibire questo tipo di trasporto in città. La spiegazione è semplice: sono i ribelli che si muovono sulle motociclette. Il governo ha detto anche che i ribelli avevano i capelli lunghi (quindi tutti a tagliarsi i capelli corti per evitare di essere preso per un sospetto o malmenato). Non ha molto senso. Anzi non ne ha proprio. La polizia controlla come può sulle vie principali. Cercando via alternative si riesce sempre a trovare una soluzione. Pensavo i poliziotti fossero più insistenti con la corruzione. Solo una volta mi hanno chiesto di pagare la benzina del loro furgoncino. Gli ho detto di cercare altrove, che anche se mi avesser girato al contrario non avrebbero trovato una guinea. Ma non riescono a controllare tutti. I taxi moto, giovani e molto furbi, hanno messo in atto un vero sistema di controllo. Si fanno segni con il clacson per sapere se più avanti ci sono controlli. Quando posso, faccio segno anche io. Altrimenti pagano una multa salata. I segnali variano di paese in paese. In Ruanda, per esempio, quando guidavo il fuoristrada di padre Patrice, usavo spesso i segnali per dire alle persone se ci fosse la polizia. E così loro facevano con me. Si usavano le luci anabbaglianti per chiedere. In seguito, l’indice rivolto due volte verso l’alto significava che c’era la polizia, due volte verso il basso no. Se c’era l’autovelox, si faceva un cerchio con pollice e indice. Se i poliziotti ti vedevano, ti multavano salatamente. Ma i limiti di velocità erano imbarazzanti per davvero (30 all’ora nei villaggi, manco in Svizzera). A volte, nella mia circoscrizione, per cavarmela quando mi beccavano dicevo che andavo a trovare il vescovo urgentemente. Fatta, facile. Riconoscevano l’auto di Patrice. Ma appena andavo in un’altra regione, non funzionava più. Faccio quindi la stessa qui con i moto taxi. Se li metto io in difficoltà, salendo a bordo, è mio dovere proteggerli e evitare che siano multati. Perciò posso dire che sono con me. A volte, per far finta che non siano tassisti, si mettono pure uno zaino addosso sembrando studenti anche se sono spesso riconoscibili.

 

Un giorno, arrivato al bar di Ben-Tsvi con la moto, scorgiamo la polizia troppo tardi dietro a una curva. “Vattene in fretta” gli dico. Faccio appena in tempo a dargli una moneta da 100 franchi che lui deve fuggire.I poliziotti ci hanno visti e volevano fermarlo per bloccarlo. Gli urlo di tornare a prendere il resto. Il poliziotto mi guarda male ma ormai non può più fare nulla. Oddio, ho visto anche gente presa a manganellate. Meno male che non era uno sbirro ticinese, perché con la sua bacatezza mi avrebbe multato sicuramente.

 

Un’altra volta, durante un’altra corsa ci fermano due poliziotti sulla strada principale. “La patente” chiede il poliziotto. Silenzio dall’altro lato. “Agente, scusi” cerco di introdurmi – “ lui è con me”.

“Sì ma non ha la patente”.

“Lo so ma l’abbiamo dimenticata a casa perché dobbiamo andare d’urgenza in ospedale” rispondo.

“Ma non potete andare avanti”.

“Va bene” -fingo di dire al tassista -“ tu torna a casa e io vado all’ospedale a piedi da qui” fingendomi un po’ preoccupato.

“No, non fa nulla, potete andare, andate all’ospedale giusto?” risponde il poliziotto.

“Sì, grazie mille agente”.

È un po’ la scusa della nonna malata che si usa. Funziona sempre. Solitamente, appena salgo sulla moto, comunico quindi con il ragazzo per inventare una scusa insieme al tassista. Ci scambiamo i nomi per essere sicuri. Una scusa che tenga. E via, tutto a posto. Il fatto di essere straniero aiuta sicuramente.

 

In effetti, quel giorno dovevo davvero andare in ospedale per fare il tampone per salire sull’aereo. Arrivato al laboratorio, la signora dietro al botteghino mi dice: “Costa 19’500” con il solito tono indolente.

“Bene” ribatto. Cerco nelle tasche gli ultimi spiccioli. Mi rimangono solo 17'000 (circa 28 euro). Si deve negoziare.

“Senta posso portarle i 2 mila franchi più tardi? (equivalente di 3 euro e 70 centesimi più o meno)”. Interviene un tipo di fianco. Un paziente. “Si ma lascia qualche documento”. Ma che c***o vuole questo? Mi chiedo. Fatti gli affari tuoi.

“Si, ma tengo il tuo passaporto qui con me” dice allora la signora, seguendo il consiglio del tipo. Maledettacci, e se mi fermano? Poi devo corrompere l’ufficiale di polizia e non ho soldi. Comunque sia, il barbone  sono io. Ma qui i soldi finiscono in un battibaleno. E sicuramente non sono quello che spende e che spande, visto che tiro il prezzo al centesimo sempre (anche se, quando la persona è onesta, lascio sempre la mancia). Per fortuna, il giorno prima ho inviato a Saint Clair qualche soldo su Western Union, che mi sarebbero serviti per continuare a vivere. le riserve di euro da cambiare sono finite e un bancomat è introvabile. La tizia dello sportello della WU dice però che potrà darmi i soldi solo nel pomeriggio (si è pure fatta corrompere per farseli dare, una macchietta). Non posso aspettare fino al pomeriggio, perché il laboratorio chiude ale 12.30. Chiamo Saint Clair chiedendogli di venire ad aiutarmi per pagare la somma restante. La tipa allora, mi fa entrare nel laboratorio. Il medico mi dice di attendere dopo avermi registrato. Nel mentre, si fa largo una signora, sventolando due fogli tutta concitata. “Perché su questo test fatto in Camerun c’è scritto che sono positiva e invece sul vostro test risulto essere negativa?”. Il dottore le  risponde in modo diretto e abbastanza supponente, che i due test hanno due date diverse. Ma lei insiste. Non capisce il perché. Interviene pure un poliziotto nella sala, dicendo che sono i camerunesi che hanno manomesso il test apposta. Se c’è da dare la colpa a qualcuno, sempre ai camerunesi: “Ils ne sont pas serieux”, “non è gente seria” si dice sempre, ridendo a crepapelle. Insomma, nel degrado si ride sempre. Poi, finalmente posso fare il tampone. Un vero furto. Inutile spreco di soldi. Più tardi, Saint Clair è arrivato a pagare gli ultimi 2500 franchi per riscuotere il passaporto.

 

In Centrafrica non funziona nulla. Tutto è complicato. La gente è disponibile ma le cose sono rallentate sia dalla burocrazia che dalle difficoltà dovute ai rifornimenti e alle scarse risorse. Quando tutto sembra risolto, ecco il problema seguente che sorge. E per fortuna che comunico bene con tutti. Non immagino nemmeno cosa significhi per qualcuno che il francese non lo parla.

 

Nel pomeriggio di Domenica, il ritrovo è al bar. Obiettivo: chiacchierare e distruggersi di birra fresca (quando c’è elettricità) a colpi di 0,75L. Si discute della vita, dei problemi, di politica, di donne. Ma soprattutto si ride, ci si prende in giro. Il bar è solito nel quartiere Ben Tzvi di fianco alla chiesa Hallelujah, una chiesetta è molto bella che ha le parvenze più di una moschea. In effetti, sembra un ibrido. In cima al campanile è posta una croce sovrastata da una mezzaluna con una stella. Le mura sono scolpite con disegni quasi arabeschi. Lo trovo affascinante. Sembra essere una chiesa risalente all’epoca coloniale. Il proprietario del bar si chiama Prince, un imprenditore che ha anche una piccola boutique di vestiti di fronte e che parte spesso in Benin per fare compra-vendita di automobili da rivendere a Bangui. C’è un andirivieni interessante. Nelle vicinanze ci sono vari bar dove la gente si ritrova. Amici, ragazzi, ragazze, ubriaconi, famiglie che passano il pomeriggio insieme dopo la chiesa. La gente gira da una parte all’altra. C’è pure una signora camerunese che ha un piccolo motel, dove le coppiette possono passare del tempo insieme. Non si può invitare il proprio partner nella casa familiare se non si è sposati. È uno spettacolo. Tutti nascondono ciò che è più evidente. Saint Clair ne abusa spudoratamente, dicendo “la camerunaise c’est la solution” (la camerunese è la soluzione). Fa apposta ad invitare le ragazze da quartieri lontani e tira sera. Alle 18, quando scatta il coprifuoco, non si può più tornare a casa. Così alle 17.45, 15 minuti prima dell’ora X, sono obbligate a dormire dalla camerunese. Mica scemo l’amico.

Ordino sempre la mia MOCAF, la birra locale. Il cameriere arriva per aprirla con l’anello oppure girando il tappo strusciandolo su di una bottiglia vuota. Arrivano sempre con due bottiglie così che quando si finisce la prima non si perde tempo. Ci si ubriaca in fretta. Molti sono sempre ubriachi, anche al lavoro. La sera è difficile camminare diritti. Ma tutto ha anche un fine. I ragazzi invitano ragazze per provarci continuamente. Le ragazze fanno le dure ma alla fine ci stanno. La birra scorre a fiumi per una manciata di franchi. I venditori ambulanti, passano per vendere l’inimmaginabile. Dai cappellini, ai tovaglioli per la tavola, scarpe, mutande e biancheria intima femminile, scope, chiavette usb oppure addirittura portano la bilancia per pesare le persone. Ogni persona 25 franchi Cfa (qualche centesimo di euro). La gente si esalta, più beve più spende. Addirittura alcuni ragazzi comprano la biancheria intima della moglie (o amante? Non si sa).

 

Loic arriva in pompa magna con il suo scooter. Mi saluta, imitando l’accento francese che usano i libanesi, ormai presenti in tutta l’Africa francofona (in alcuni paesi hanno creato veri e propri imperi): “Mon frère, il y a en l’Afrique les filles les centrafricaines, c’est les wali ». Difficile riprodurre l’effetto. È divertente. I libanesi parlano proprio così. Gli chiedo sempre le spagnolette che produce in casa. Sono una prelibatezza e soprattutto, sono naturali. Mi rimprovera: “Basta con queste spagnolette” ma poi, alla fine me le porta sempre sorridendo. Servono a rallentare l’effetto della sbornia. Si beve molto ma non si mangia. Un pasto come si deve, lo si fa solo la sera, se si può.

 

Alle 5.55 del pomeriggio salgo su una moto di fretta. Nessuno vuole portarmi a casa, ma me la cavo sempre. Alle 6 tutti devono essere a casa. Può diventare una situazione un po’ insicura. I soldati sono tesi, basta un nulla per creare problemi. E si sa, la legge marziale e la guerra sono spietate.

 

 

La speranza è l’ultima a morire

 

Il capitano Amoula Molo, per gli amici come me “Firmin”, è un tipo interessante. Militare di carriera, responsabile della comunicazione della Ministra della Difesa. Diritto. Cortese e giusto. La sua più grande sventura? Avermi incontrato. Penso mi abbia visto più volte che sua moglie in questi giorni. Non me ne pento. Forse lui sì. Ma "chissenefrega".  Posso diventare assai insistente quando ne ho voglia. Oddio, non che mi piaccia rompere le scatole alla gente. Ma per il lavoro, per accedere alle storie, sono pronto a tutto. No, forse ho dei limiti. Ma non mi precludo nulla.

 

“Bonjour mon capitaine” gli urlo al telefono quando lui mi risponde.

“Oh, F, bonjour”

“Allora, che novità? La missione parte?”

“Il colonnello è in riunione. Ti chiamo io”

 

La sera stessa, un chiamata del capitano mi rassicura. “Si parte, domani mattina, 5.45 in ufficio da me, il Colonnello ha dato l’ok”. Finalmente si lavora. Si va in missione con l’esercito, 100 chilometri da Bangui, al fronte, per raccontare le vite dei soldati, mostrare come si vive la guerra in questo paese dilaniato e dimenticato da tutti, dove solo il sole sembra ricordarsi di massacrare la mia povera testa (quasi) pelata. “Prendi il giubbotto antiproiettile”. Tutto per poi, un’ora dopo, annullare. “La missione salta. Non ci sono le derrate alimentari sufficienti per i soldati”. Ecco come combattono i soldati dell’esercito nazionale centrafricano. E senza armi. Che motivazione hanno? Insomma, la missione è rinviata al giorno successivo. E se la prima volta è saltata perché non c’erano i viveri da portare al fronte come provviste, la seconda è stata annullata perché i comandanti al fronte non erano stati avvertiti per tempo per mancanza di comunicazione. Ma come fa, un esercito, a combattere se nemmeno si possono avere comunicazioni decenti? Il problema dell’embargo di armi è proprio quello.

 

Vedo che Firmin vuole davvero aiutarmi. Mi porta a conoscere il Colonnello Kongbo, il responsabile della missione. “Se la Ministra della Difesa mi dice di sì, allora non c’è problema”. La chiamo all’istante. Mi dice che sta definendo i dettagli. Quindi? Aspettare, aspettare, aspettare. Basta, ne ho piene le p***e di aspettare. Ho aspettato fin troppo. Ma di più non posso fare. Sì, potrei interpellare il Presidente. Per un momento ci ho pensato. Ma così lontano è difficile arrivare.

 

“F” mi chiama il Capitano improvvisamente “vieni in ufficio da me subito, dobbiamo parlare”. Tac, salto su un moto taxi, “Deux cent francs, Min def” gli dico. Corri come il vento. All’entrata, ormai i soldati mi salutano amichevolmente. Sanno che sono di casa. Talmente di casa che entro, e mi reco nell’ufficio del capitano quasi fosse il mio. La sua scrivania si trova sulla torretta dell’edificio principale, in perfetto stile coloniale. Un edificio storico e anche molto suggestivo. Oggi è fatiscente, con i muri bianchi macchiati di un rossastro porpora dovuto alla terra rossa che distrugge tutto e si infiltra ovunque. Entro nell’edificio. Un militare in carriera, che porta i segni dell’età, mi chiede con tono autoritario: “Da chi vai?” Non mi accorgo del grado, direi di primo acchito che è un ufficiale abbastanza alto, perché ha tante tacchette sulle spalline. Ma non ci faccio troppo caso. Già ai tempi dell’esercito svizzero, a volte mandavo a quel paese gli ufficiali, che me la facevano pagare. Quante corse, quante ore passate insonni. Ma ora, chi se lo ricorda più chi è cosa? Sono passati anni da quando sapevo leggere i gradi e poi, cambiano di paese in paese.

 

Rispondo: “Buongiorno, sono qui per vedere il Capitano Firmin”. Non l’avessi mai detto. Che gaffe. “Ma chi è il capitano Firmin? Qui ci si presenta come si deve quando si parla con ufficiali, che maniere sono queste?” ribatte l’ufficiale facendomi notare di usare un po’ di disciplina.

Il capitano Amoulo Malo (ammetto che questo nome ci ho messo un po’ a impararlo) viene a ricevermi. “Tutto a posto, colonnello, è con me” escalama. Ridono tutti. “Era il colonnello” mi dice Firmin quando entriamo nel suo ufficio. Io sorrido. Che figura di merda, penso. La seconda volta che sono tornato, appena entrato nell’edificio, non vedo nessuno alla ricezione e mi reco verso le scale che portano all’ufficio della torretta di Amoulo Malo. Ancora una volta, non mi accorgo però che il colonnello mi chiama: “Ma dove va ancora quello?” dice ormai senza speranze.

“Mon colonel” rispondo sorridendo e ridacchiando, dirigendomi verso di lui.

“Lei non conosce la disciplina, fa come se fosse a casa sua, ma questa è una caserma” – mi dice con tono divertito.

“No scusi, mio colonnello” chiaramente usando il gergo militare per metterla sul ridere. “Sa colonnello quando ero nell’esercito mi hanno sbattuto fuori, ho persino cercato di organizzare una ribellione per lasciare la scuola sottufficiali e andare a pulire i gabinetti”. Ride a crepapelle. Si diverte. Lo vede che mi comporto così perché sono in buona fede e voglio la notizia, la storia. E non sono arrogante per nulla. Alla fine mi congeda. Gli faccio il saluto militare alla francese (ironicamente), con il palmo della mano posto in avanti. Sorride e poi: “Ora aspetti fuori che finisco con il capitano”.

“A vos ordres”. Quanto mi diverto. Il colonnello viene, ci scambiamo due battute, ridiamo di gusto e ci diamo la mano schioccando le dita (a furia di schioccare le dita con tutti mi sono fratturato la falange penso, sono giorni che fa male). Ora capisco perché io, nell’esercito non potrei mai starci. Ma meglio così.

 

Ho detto che niente funzionava, che tutto era incerto. Ebbene confermo ancora. Ho insistito all’infinito. Sono stato a tanto così dal riuscire ad ottenere almeno la possibilità di scattare una foto come si deve. Ancora domenica sera, il Capitano mi chiama dicendomi che il giorno seguente ci sarebbe stata una missione. “Ma ho l’aereo domani, Capitano”. “Ah che peccato”. Mi richiama ancora la mattina di lunedì: “La missione è rinviata ancora”. Il mio cuore è in pace. “Ma scusi, Capitano, mi comincio a chiedere se mai la farete”. L’ho solo pensato.

 

Difficile organizzare qualcosa in generale. I dirigenti non sono mai in ufficio. Bisogna sempre scrivere “protocolli” formali, con un linguaggio forbito tipico delle amministrazioni della “Françafrique”. Scrivere fogli su fogli, per chiedere un semplice incontro. Fa parte del gioco. Anche se frustrante, è divertente entrare nell’ufficio del Direttore Generale della polizia nazionale e trovare ufficiali che guardano un servizio sulla riproduzione sessuale delle iene su Canal +.

 

Per entrare nell’ufficio presidenziale, bisogna passare attraverso i soldati ruandesi. Seri e con occhi assassini, controllano fino al midollo ogni dettaglio del mio zaino. Lo dico per esperienza. Con loro non si scherza. Non bastano due parole in Kinyarwanda (la lingua ruandese) per distendere i loro visi tesi. La soldatessa mi scruta con uno sguardo arrabbiato. Il soldato mi chiede di aprire tutte le tasche dello zaino. Prende la macchina fotografica e mi chiede di accenderla. Si vede che sono addestrati dagli americani. In Afghanistan lo chiedono tutti, per assicurarsi che non ci sia una bomba innescata (il mujahid tagico Ahmad Shah Massud fu assassinato nel 2001 proprio così, cosa che gli diede la fama di martire, eroe e benefattore soprattutto dai francesi -perché spiaccicava qualche parola in francese- anche se era tutto il contrario). Bravi i soldati ruandesi. Gli si dice una cosa, la ripetono a pallino, senza porsi domande. Pedine perfette per… un dittatore perfetto. D’altronde, andando un po’ a fondo nella storia, mi sono chiesto ancora una volta come mai il Ruanda abbia allungato i tentacoli fino a qui. Con la scusa del peacekeeping, i ruandesi sono arrivati in Centrafrica strappando contratti minerari non da ridere, in cambio di un accordo di difesa con il governo di Bangui. La gente non è sicuramente cieca. Si sa benissimo che Paul Kagame, un criminale di guerra che gioca a fare il salvatore, non fa nulla in cambio di niente. Nessuno lo fa. Nemmeno la Russia. Accordi minerari, controllo geopolitico su una regione che confina con il Congo Kinshasa. Insomma, è inquietante perché mentre lui passa come l’eroe pacificatore, in Ruanda la repressione può aumentare. Tanto chi ci bada, lo sviluppo del paese continua imperterrito, tutto funziona benissimo. Una piccola Svizzera. Sì, di facciata.

 

Per accedere a qualche storia in più, ho pure provato a passare le linee, cercando di andare a raccontare la vita dei ribelli. Ci ho provato due volte. Passare le linee significa chiaramente andare a vedere come la pensano i ribelli della CPC, quel raggruppamento formato da signori della guerra che prima si combattevano fra loro ma ora si sono alleati sotto l’egida dall’ex-presidente François Bozizé. Vorrei dare una faccia a questi ribelli, questi personaggi che terrorizzano oggi due terzi del territorio centrafricano e si dice siano sostenuti dalla Francia. In verità non si dice. Nessuno osa dirlo, anche se ci potrebbero essere le certezze. Ma si sa, quando si parla di Francia sembra di essere tornati alla censura sovietica. Nessuno dice nulla, tutti discreditano le informazioni locali come “superficiali e complottiste”. Gli organi internazionali dicono che la stampa locale è scandalosa. Ma secondo me non è vero. Ma scherzi? Come si ora criticare un paese europeo, avanzato, democratico, libero, di fomentare rivolte in un paese sovrano? Impossibile, poveri francesi. Ancora con sto complottismo? E se si avessero le prove?. Pensate che riuscirò a pubblicarle? La vedo dura.

 

Il primo tentativo di passare le linee fallisce miseramente lunedì. I ribelli controllano molte zone a pochi chilometri dalla capitale, fra cui le zone appena dietro l’aeroporto. Non appena attraversiamo una strada adiacente alla pista di atterraggio su di una moto -dove tutti hanno posto bancarelle e creato un vero bazar- ecco che ci fermano due soldati e ci rispediscono alla polizia aeroportuale. Il militare era palesemente fumato ma non stupido. Gli abbiamo mostrato le credenziali. Ma niente da fare. Con la scusa che era già zona aeroportuale, ci hanno spedito indietro. Non è vero, secondo la mappa la strada era appena fuori. Inoltre, molte stradine attraversano i prati dell’aeroporto per raggiungere altri quartieri e nessuno dice nulla. Perciò, ho dedotto che era solo una scusa per evitare che passassimo dall’altro lato. Penso che hanno capito dove volessimo andare. Riprovandoci, le cose si sono messe ancora peggio. Saint Clair ha detto che ha qualcun altro che potrebbe aiutarci. Incontriamo un tale al bar martedì pomeriggio, che dice di poter organizzare tutto. È un suo amico a quanto pare. Mi fido e sembra sapere di cosa parli. Ma sembra, ancora una volta, tutto troppo facile. Organizza tutto per il giorno seguente. Alle 8.30 pronti ad andare. Ha detto che ci potrebbe dare l’accesso ai ribelli Anti-Balaka (uno dei gruppi ribelli della coalizione CPC), dietro la collina di Bangui. Appena dietro il centro città per intenderci. Il problema è sempre quello di passare le linee. Essendo bianco, sono troppo visibile. Se ci sono spie, sentinelle o quant’altro, mi vedrebbero subito. Ma lui dice di rimanere tranquillo, che tutto andrà bene.

 

Il giorno seguente, alle 8.30 il tizio non risponde. Lo aspettiamo seduti in un caffè. Sento il nervosismo. Prima di queste missioni è normale. Ma sento che qualcosa non va per il verso giusto. A conferma di tutto ciò, mentre sorseggio un caffè, sento delle voci provenire dal mio telefono. Mi ascoltano? Sento delle voci strane due o tre volte provenire dal mio telefono. Sicuramente il telefono è sotto ascolto. Spengo tutto, butto il telefono nello zaino, tolgo la carta SIM. Non mi sorprende d’altronde. Per chi non crede al fatto che la gente sia schedata, dò una semplice nozione: gli smartphone, whatsapp, facebook e google possono rivelare ai governi anche quante volte andate al cesso! Usare app criptate aiuta a proteggersi, almeno che non vogliate essere spiati anche quando andate a letto con qualcuno e che scommettano dopo quanti minuti avrete finito. Insomma, la cosa non mi piace assolutamente. Mi sforzo comunque di rimanere positivo. Deve funzionare.

 

Verso le 9.15 chiama il nostro contatto. Appuntamento di fronte a un caffè del PK5, a 5 chilometri dal centro. Arrivati, attendiamo nel taxi. Dopo 10 minuti, eccolo che appare a piedi. Sale sul taxi giallo insieme a noi nello stesso momento in cui un pick-up bianco con una targa differente dalle altre, appartenente al governo, si ferma di fronte a noi. Strano, mi dico all’inizio – pensando che sbagliassero. Ma poi mi rendo conto che di strano non c’è nulla. Escono due bestioni. Ci chiedono di salire in auto. “No” mi dico “non un’altra volta”. Ho risentito i momenti di tensione vissuti in Venezuela, solo che sta volta mi sono rassegnato al fatto di prendermi qualche scazzottata. Beccato con un ribelle per giunta. “Vogliamo solo verificare i vostri documenti” dice il soldato. Il 4x4 ci porta nel quartier generale della guardia presidenziale. Ci scarica di fronte a un ufficio. Entriamo e ci fanno sedere sotto un gazebo con sbarre tipo prigione, su 3 sedie colorate di fianco ad alcune brande militari. “Non ci rinchiuderanno mica qui no?” mi chiedo. Arriva subito il comandante, ci saluta cordialmente. Chi è? Il comandante Jules della guardia presidenziale, diretto subalterno di Sua Eccellenza il presidente della repubblica, “l’arcangelo” Touadera. Io, pensando che siamo insieme a un presunto collaborazionista ribelle, mi sono già dato per spacciato. Il comandante prende il mio passaporto, sfogliando i visti: “Ah bene, Uganda, Sudan del Sud… quindi sei sulle orme dei ribelli della CPC no? Sono sicuro che sai che provengono proprio da lì”  - eccoci, dico fra me e me, ora sfangatela da solo, sei preso in castagna, sa tutto. “No comandante” -rispondo- “sono andato in quei paesi anni fa”.

“Eppure è da lì che arrivano queste persone”.

“Si sbaglia”, insisto. Poi, con uno sguardo rassegnato, lascia spazio alle mie spiegazioni. Non so come faccio, mi arrampico sui muri ma riesco a rigirare la frittata a mio favore: “Io volevo solo mostrare la crisi umanitaria”.

“Sai”- mi risponde- “Nei bar la gente ascolta”.

Voglio capire bene di cosa si tratta. Come ha saputo tutto questo? Mi sembra strano perché siamo sempre stati molto discreti.

“Volevate arrivare alla collina?” interrogando Saint Clair in Sango, la lingua nazionale. Come faceva a saperlo se l’unico a sapere della collina era il tizio di cui ci eravamo fidati?

“Comandante” – intervengo ancora – “Noi vogliamo solo fare il nostro lavoro, fare missioni, raccontare il paese. Me ne frego del resto. Ma se non ci aiutate, noi dobbiamo arrangiarci. Io devo fare il mio lavoro come voi il vostro”.

“ Capisco, ma vuoi rifornire i ribelli?” – insiste il comandante – “Abbiamo avuto esperienze di umanitari, Nazioni Unite o giornalisti che hanno trasportato armi ai ribelli. Non va bene, vogliamo solo accertarci con chi abbiamo a che fare”.

Io rifornire i ribelli? Ma come faccio? Insomma, dopo 20 minuti di discussione, ci dice di andarcene.

“F”- mi richiama in privato il comandante- “abbi un attimo di pazienza e potrai lavorare”.

Ci salutiamo e ci congediamo cordialmente. Ma la missione è compromessa. Dopo qualche ora, ci siamo resi conto che il contatto era quello che aveva venduti al governo. Si sarà preso qualche soldino.

 

Nel frattempo, devo pure gestire i miei pantaloni H&M e il mio zaino cinese che oltre ad averlo ricucito con le stringhe delle scarpe, ha pure ceduto la giuntura fra i laci e le bretelle (e meno male che doveva essere uno zaino militare). Tutte baracche. I pantaloni invece si continuano a squarciare. Penso che sia ora di comprarne di nuovi. Ma ci tengo troppo e sono comodi. Perciò mi reco al mercato centrale, dove una serie di sarti che cuciono tessuti tradizionali e colorati, oppure jeans, rattoppandoli e facendoli diventare come nuovi, fanno girare le bobine delle macchine da cucire ancora manualmente, con i piedi. I ferri da stiro funzionano ancora con il carbone ardente. Sono degli artisti. Durante la prima trasferta verso i ribelli, ho rotto i pantaloni sul cavallo salendo sul pick-up dei soldati. Mi si vedeva tutto. Che vergogna. Andare in giro come un troglodita non è per nulla rispettoso. Il sarto ripara lo strappo in quattro e quattro otto. Ma due giorni dopo, un apparente buco innocuo sull’altro paio di pantaloni vicino all tasca, si trasforma in uno strappo gigante sull’esterno coscia. Non è possibile. Ritorno al mercato

Tra l’altro, il mercato è un luogo affollato, pieno di gente e borseggiatori che non appena mi vedono, mi studiano come avvoltoi, aspettando il momento giusto per attaccare. Una volta, Saint Clair ha placcato uno di loro mentre si stava tuffando su di me per prendermi il telefono. Sono professionisti, non riesci a cavartela. E perdere il telefonino è un disastro per il lavoro. Quindi l’allerta è ai massimi livelli. Cammino sicuro, diritto, sapendo dove andare per non dare sensazione di smarrimento e non permettere loro di vedere la mia vulnerabilità.

Entro nel labirinto prima di trovare i ricamatori. Tutti sono sorpresi di vedere un bianco solo nelle piccole viuzze strette e chiedere di riparare un paio di pantaloni. Ma lavorano molto bene e sono gentili. Li osservo con passione mentre lavorano, ricordando quanto fossi negato alle medie in cucito. Mi arrangio cucendo roba semplice.

 

Le mie considerazioni finali

 

Se la gente vuole davvero sapere come la pensa un giornalista, deve leggere quello che scrive liberamente. Senza filtri della stampa. Spesso nei reportage non c’è spazio per dire tutto. Qui, posso dire tutto da come potete leggere. Forse non piaceranno a tutti le mie idee. E a chi non piace, cosa che rispetto proprio perché fa parte di quello per cui si combatte (ovvero la vera libertà d’espressione e non quella che millantano i grandi giornali, politici o umanitari), è liberissimo di non leggere o mandarmi a quel paese. È costruttivo.

 

Onestamente, già Bangui, oggi città assediata, mostra la parte più sviluppata del paese. Una nazione completamente in balia di sé stessa. Allo sbando. Dove non ci sono quasi strade asfaltate, dove l’elettricità è circoscritta a pochissimi edifici in maniera stabile, dove la gente è ancora analfabeta. Si potrebbe andare avanti, raccontando come i bambini chiedono un pezzo di manioca perché affamati da giorni. In un paese dove i politici sono guerrieri che si contendono il potere fingendosi interessati alle persone. Touadera ha chiamato i russi e i ruandesi quando ha visto che i francesi allontanarsi. Ma sono più garanti del suo potere che altro, come detto prima.

 

La verità è che nessuno vuole la stabilità di questo paese, o l’innalzamento delle coscienze. Nessuno. Perché un popolo istruito è pericoloso. Un popolo ignorante, è un popolo asservito. Gli interessi sono molti e spesso sono esterni. Molti ribelli non sono nemmeno centrafricani. Sono davvero ciadiani, sudanesi, camerunesi.

 

Nel 1960, quando il paese ha ottenuto la sua indipendenza, il prezzo da pagare è stata la sottomissione a Parigi, così come gli altri stati della comunità dell’Africa Centrale e Occidentale, firmando un accordo che potremmo descrivere semplicemente come neo-coloniale. Pensiamo solo a uno di questi punti: la moneta, il CFA : Franc des colonies françaises d’Afrique. Ah, ok. La sigla CFA oggi significa altro ma…è lo stesso nome di prima e ha la stessa funzione distruttiva per le economie di questi paesi. L’unico che ha alzato la voce? Il burkinabé Thomas Sankara. Che fine ha fatto? Assassinato. E la lista potrebbe allungarsi. E qui, in un certo senso, sta succedendo una cosa abbastanza simile: Touadéra, il presidente eletto, non va bene alla Francia. È lui che, dopo aver appreso del ritiro della missione militare Sangaris francese, si è rivolto ai russi (alcuni suggeriscono pure che sia stato lo stesso Macron a spedire i centrafricani verso Mosca, per poi ingelosirsi). Come dice il buon vecchio Joseph Bitoumi, la Francia è come un marito che sposa una donna e non se la fila, ma quando questa va da un altro, allora gli rode. La botte piena e la moglie ubriaca.

Padrone, più che marito. Il centrafricano, come dicono attivisti, ha ancora un complesso nei confronti dei francesi. Molti per strada ti chiamano ancora “patron”. Terribile.

 

Morale della favola, secondo molti, anche all’interno dello stesso governo centrafricano, la Francia e la stampa francese non accettano l’arrivo dei russi cominciando a voler destabilizzare il paese ritirando i soldati e poi, infine, stimolando la ribellione attraverso personaggi vicini a Parigi. Dal lato russo invece, Putin accetta la richiesta del governo di Bangui per mandare rinforzi militari e addestrare le truppe, mandando pure la compagnia privata Wagner, che combatte al fianco della Minusca (la missione dei caschi blu Onu) e alle forze armate locali. Anche loro non sono dei santi. Ma almeno hanno portato un aiuto concreto. Per non parlare della Cina, ormai ha ormai i tentacoli in tutta l’Africa, portando però qualche infrastruttura concreta. E infine ci si mette pure il ruandese Paul Kagame, mandando un contingente di soldati ruandesi visti come eroi. Pensate che i ruandesi siano venuti a gratis? Kagame dirà di sì, ripulendosi l’immagine di criminale di guerra, firmando contratti minerari con prestanomi e portando a casa milioni. Ne abbiamo parlato prima.

Ma il conflitto interno è ancor più complesso, retaggi delle numerose crisi precedenti e conflitti di stampo sociale (e non solo etnico). Per esempio i pastori nomadi trucidati solo perché possiedono il bestiame che vale oro. E la classe politica locale, che difende il potere, non la popolazione. Che è in affari con i ribelli che oggi combatte. Connivenza, collusione. Affari milionari per scambi di diamanti e di oro. Qui si parla di potere, di nient’altro. C’è chi accusa anche le Nazioni Unite e i caschi blu della Minusca di fare affari con i criminali. Ma tutti, sembrano eroi, puliti, senza una macchia sul casellario giudiziale immacolato. “Noi? Sono falsità” “Noi? Vogliamo la pace e il dialogo” “Noi? Condanniamo gli attacchi sui civili”. Sono i primi a fomentarli. E alla fine, chi ci rimette?  La gente innocente che vuole davvero solo vivere in pace, asfaltare una strada e mangiare 2, non dico 3, ma solo due volte al giorno. Troppo difficile. E se vogliamo possiamo toccare l’aspetto umanitario. Uno scandalo, e come discutevamo con la Ministra della Difesa Koyara, il più grande circolo di riciclaggio di denaro dei paesi sviluppati. Basta fare uno più uno. Milioni In, milioni Out, nessuno dice nulla. È per aiutare i poveri. Lo dice lei, non io: “Niente guerra? Niente Minusca, niente guadano”. O Gervais Lakosso, un attivista per i diritti civili: “I paesi che hanno chiesto aiuto alle missioni Onu, non se ne liberano più. Afghanistan, Siria, Somalia, … e qui. Facciamo due calcoli”.