14. Cos'è successo a Tanwalbougou?
Maggio 2020. 12 persone sono arrestate in un mercato vicino al villaggio di Tanwalbougou dalle Forze di sicurezza burkinabé (FDS) e dai Volontari della patria (VDP)- milizie armate costituite da civili dei villaggi attaccati dai terroristi. Ci troviamo a circa 42 chilometri dal capoluogo della regione dell’Est, Fada N’Gourma (circa 230km da Ouagadougou), in Burkina Faso. Qualche giorno dopo, il governo dichiara che quelle stesse 12 persone sono morte d’asfissia in una cella del posto di gendarmeria di Tanwalbougou. Tutte le vittime -senza eccezioni- appartengono all’etnia Peuls, allevatori tradizionali che estendono la loro presenza dalla Guinea Conakry fino al Ciad. I corpi esanimi delle vittime vengono trasportati a Fada N’Gourma prima di essere seppelliti in una fossa comune. Il Governo apre una procedura d’inchiesta ma tutto sembra essere insabbiato abbastanza velocemente. Il procuratore sostiene la tesi che siano morti d’asfissia sebbene i familiari, presenti nella camera mortuaria, sostengano di aver visto i loro crani spappolati. Quando sono seppelliti, sono avvolti in teli candidi e bianchi, macchiati di sangue ormai da giorni e in putrefazione, secondo testimoni e alcune foto. Strano per essere stata una morte per soffocamento in una cella minuscola senza acqua e cibo per giorni. Una tragedia. Un massacro. Cos’abbiano fatto e di cosa siano stati accusati, non si sa. O meglio, si sa. Il loro torto apparente è quello di appartenere a un determinato gruppo.
20 febbraio 2021. È passato quasi un anno. Sicuramente uno dei giorni più pazzi della mia carriera. Sono le 3 del pomeriggio. Il caldo impesta la campagna burkinabé. Il sole brucia qualsiasi cosa. Il terreno brullo e i baobab spogli mostrano i primi segni della desertificazione che continua ad estendersi a sud del Sahel, mangiando pian piano sempre più sprazzi di terreno. Siedo all’ombra di un albero insieme ad Am e Costa (i miei colleghi in questa missione), il nostro autista Abdullah e Joe, un pastore protestante che ci ha portati fino a qui. I poliziotti del posto di Gendarmerie di Tanwalbougou ci portano alcune sedie blu in ferro. La tensione è massima. Mi guardo intorno. Il muro dell’edificio è crivellato di proiettili e attorniato da protezioni di terra e ferro. Gli attacchi dei terroristi, in questa zona, sono stati molto frequenti e intensi fino a poco tempo fa. Ma non è questo l’importante. Qui, quasi un anno prima, 12 Peuls sono stati massacrati solo perché accusati di essere terroristi, ma senza nessuna prova. Proprio dove sediamo noi, forse. E questi poliziotti ne sono sicuramente complici visto che uno di loro afferma di essere in servizio qui da almeno due anni. Siamo i primi occidentali ad arrivare sino a Tanwalbougou dall’inizio degli attacchi jihadisti in Burkina Faso, intensificatisi dal 2019. Siamo in piena zona rossa, ad alto rischio. È un “no man’s land”. Due giorni prima, un attacco di jihadisti – che assaltano villaggi uccidendo chiunque con moto e kalashnikov- ha fatto morti a soli 7 chilometri da lì. I rischi sono molteplici: rapimento, essere venduti, essere uccisi. E non solo dai jihadisti, legati ai gruppi Al-Qaeda e Stato Islamico. Ma anche dalle FDS e dai VDP. O dai Gendarmi. Chi lo sa, se scoprissero che stiamo indagando sull’omicidio di 12 Peuls, che vogliamo raccontare la verità, forse potrebbero tenderci un’imboscata al ritorno verso Fada N’Gourma e incolpare “gli uomini della foresta” come chiamano i terroristi da queste parti. Troppo facile. E non so se amano le domande scomode. Anche se è il nostro dovere farle, ogni tanto dobbiamo pensare a tutte le variabili. Se effettivamente ne vale la pena. Discutiamo con i gendarmi in maniera cordiale, poniamo delle domande semplici per aumentare il senso di fiducia, mentre loro prendono i nostri documenti e ci scrutano molto attentamente, con i kalashnikov posati sulle ginocchia.
Tanwalbougou è un villaggio qualsiasi. Case in fango, capanne circolari con i tetti appuntiti di paglia, venditori sulla strada. Una comunità ubicata nel mezzo della foresta brulla burkinabé. Semplice, vero. Tanwalbougou. Nome innocuo, quasi divertente. Nemmeno troppo difficile da pronunciare. Perché venire in mezzo a questo limbo dove imperversano criminali e forze governative complici di omicidi contro i propri vicini di casa? È qui che risiede l’importanza del giornalismo e l’essenza di quello che sta succedendo in Burkina Faso da qualche anno. Ma forse, brevemente, bisogna contestualizzare il problema. Parlo di terroristi, Peuls, FDS e VDP. Diamo un ordine.
Nel 2015, il Burkina Faso è sprofondato nella crisi terroristica iniziata in Mali nel 2012, dopo che la popolazione ha cacciato dal potere il presidente Blaise Compaoré, uomo della Francia, assassino di Thomas Sankara e (non è sicuro), forse firmatario di accordi con i jihadisti maliani per proteggere il proprio paese. La rivoluzione nelle strade di Ouagadougou ha portato un vuoto, un caos.
Dal 2019, gli attacchi jihadisti sono aumentati esponenzialmente da qualche decina a molte centinaia. Gli sfollati sono presto diventati un milione, soprattutto nella regione del Sahel, all’estremo nord del paese e confinante con il Mali. Il nord e l’est del paese sono diventati “no go zone” facendo del Burkina Faso, una volta considerato un esempio di stabilità, una della crisi umanitarie più preoccupanti al mondo. E Tanwalbougou è stato uno scenario di questi attacchi. Non molto tempo fa. Il villaggio della provincia dell’Est fa parte oggi delle zone ancora nel mirino dei terroristi sebbene sia protetto da VDP, FDS e gendarmi. Il governo burkinabé, indebolito dal caos dovuto alla rivoluzione del 2015, con un esercito incompetente (ma addestrato da francesi e americani, dettaglio importante per il seguito), ha faticato a mantenere il controllo del territorio. La regione del nord, il Sahel, è precipitato nel caos velocemente. E così anche l’est. Con l’avanzare ininterrotto dei jihadisti, alle FDS si sono quindi aggiunti gruppi di volontari civili. I cosiddetti gruppi di autodifesa. Da un lato, il gruppo chiamato Koglweogo (“i guardiani della foresta”)- formato nel 2015 e sparso in tutto il paese a partire da cacciatori con carabine arcaiche per fare i conti soprattutto con l’aumento del crimine dovuto al caos rivoluzionario- in alcune zone è entrato a far parte anche di questi gruppi di autodifesa, dall’altro, il governo ha ufficializzato a inizio 2020 un altro gruppo, inizialmente nato informalmente e comprendendo milizie civili e cacciatori, ribattezzandoli come “Volontari per la patria” (VDP). Ragazzi e uomini hanno ricevuto un addestramento di 15 giorni per combattere e difendere i propri villaggi dai raid dei terroristi. I VDP quindi, sono diventati un ulteriore appoggio alle forze armate del paese (FDS). E così anche i Koglweogo, seppur negandolo, nei territori minacciati sono diventati parte dei VDP. Un’idea alla base ineccepibile.
Tutto sembra perfetto, bello, eroico, immacolato. Eccerto, proprio per questo molte cose sono nascoste. Negli anni, le accuse di abusi e violazioni di diritti umani da parte di questi gruppi però, sono aumentate tanto quanto gli attacchi jihadisti. E se lasciamo perdere il terrorismo di matrice islamica e le sue esazioni, queste milizie rese ufficiali dal parlamento di Ouagadougou, hanno potuto agire deliberatamente commettendo crimini nella più totale impunità su una parte della popolazione civile e senza che nessuno battesse ciglio. Gli stati occidentali che sostengono il governo, come Francia e Usa (militarmente) mandando messaggi. I tipici messaggi diplomatici della serie “ragazzi, non esagereate mi raccomando eh?” per poi sbattersene letteralmente e distanziarsi completamente dal problema, affrancandosi a quel diritto di sovranità di un paese (ma ancora, il Burkina Faso, è davvero sovrano? Ne dubito ma ne riparleremo). Dopotutto è un segreto di pulcinella, che in queste situazioni, se ci sono conti in sospeso fra comunità, gruppi etnici e quant’altro, c’è chi se ne approfitta. Ci sono molti esempi nel mondo. E il Burkina Faso non fa eccezione. Insomma, accusati di essere terroristi per vari motivi, I Peuls hanno visto un crescente astio nei loro confronti. Massacri alla luce del giorno, rese di conti, assassinii sono stati commessi -non solo dai terroristi (che uccidono tutti a prescindere) – ma proprio dalle FDS e soprattutto dai VDP e i Koglweogo, i quali dovrebbero essere i garanti della sicurezza del paese.
I Peuls (la seconda etnia del paese) sono diventati i capri espiatori del problema. Con il tempo sono stati accusati di essere il gruppo vicino ai terroristi. In pratica, chi fa parte dei terroristi? “I Peuls” gridano tutti all’unisono. Ecco che tutto è concesso. “Un’educazione islamica, frustrati hanno raggiunto i gruppi estremisti” racconta una persona. Ma non si può accusare un intero gruppo di terrorismo solamente per questo. È vero che secondo alcune voci, tutte le volte che ci sono stati attacchi, molti sostengono di aver riconosciuto solo Peuls fra i gruppi di assalitori. Ma è anche vero che molti di questi sono stati costretti a raggiungere le fila dei terroristi per sopravvivere. Espulsi dalle loro case nei villaggi o costretti a fuggire dalle esazioni dei VDP, hanno dovuto rifugiarsi nelle foreste, dove i jihadisti hanno il controllo. E alcuni, per avere la vita salva o mangiare, non hanno avuto altra scelta. Interi villaggi si sono divisi, quando prima vivevano insieme pacificamente. Sicuramente, dopo le esazioni dei VDP e i massacri con machete, mazze e fucili, molti Peuls hanno anche deciso di vendicarsi raggiungendo i gruppi armati.
Ma chiaramente, se anche fosse che alcuni Peuls abbiano aderito al jihadismo per vari motivi, non tutti sono dei terroristi. E spesso, forse nemmeno quelli che sono nei gruppi. Fanno solo finta per mangiare. C’è anche chi parla del conflitto di terra. I Peuls, popolazione di allevatori, sono in contrasto con gli agricoltori. Insomma, conflitti e tensioni forse già presenti in precedenza, sebbene tutti parlassero di tolleranza, di esempio di stabilità africana.
Invece, c’è chi la pensa diversamente. E questo ha creato una cicatrice che richiederà anni prima di essere rimarginata. Il governo ha mascherato, in silenzio. Usando il fatto che le milizie sono incontrollate, che molti VDP non sono iscritti. Perché? In sostanza e molto superficialmente, essendo i gruppi di autodifesa perlopiù costituiti da altre etnie.
Ora è più chiaro il contesto. Non è facile riassumerlo in poche righe. Ma al terrorismo si sommano conflitti esacerbati dalla frustrazione, frutto anche degli stessi problemi già presenti nella zona limitrofa maliana e delle tensioni già presenti nel territorio. Inoltre, la guerra è sempre portatrice di denaro. Quindi, chi ha interesse a terminare i conflitti?
Torniamo a Tanwalbougou. Nel 4x4, percorrendo i 42 chilometri della strada -bucata, sconnessa, che massacra li ammortizzatori del veicolo e la schiena dei passeggeri- fra Fada N’gourma e il villaggio, non vola una mosca. La tensione è ai massimi livelli. Sono 6 ore che siamo in viaggio. Ci siamo fermati a Fada N’Gourma perché Joe ha dovuto avvertire i Gendarmes della nostra presenza. Mossa pericolosa ma necessaria secondo lui: “Ci hanno già dato l’accordo”. In effetti ci lasciano ripartire, anche se il messaggio sarà sicuramente stato trasferito a Ouagadougou. Tre giornalisti occidentali che vogliono recarsi in un luogo troppo sensibile per il governo. Lo avrà saputo anche il presidente.
Il veicolo attraversa finalmente un ponticello che sovrasta il guado di un fiume prosciugato. Il cartello del villaggio è per terra capovolto e pieno di polvere. “Ci siamo” – dice Am., con tono innervosito. “Ci siamo per davvero”. Preparo il microfono, la macchina fotografica. Sono pronto.
Il villaggio sembra animato, con qualche venditore per strada che prova a guadagnare una manciata di spiccioli di franco dalla vendita di spagnolette, frutta o qualsiasi cosa abbiano ai viaggiatori che vanno e vengono dal Niger, sulla stessa strada. “Ci sono molti camion” – osserva compiaciuto Joe– “È un buon segno. La situazione è migliorata”. Le fila di camion attraversano il manto stradale completamente bucato, come fosse un pezzo di Emmental svizzero, costringendo i veicoli a cercare vie alternative sui bordi o a fare chilometri di fuoristrada. Le condizioni della strada non sono ideali. Se bisognasse scappare, sarebbe pressoché impossibile. Inoltre, fra Fada e Tanwalbougou, la folta foresta attorno alla strada è un ottimo terreno per le imboscate. Ma il fatto che ci sia traffico mi rassicura. Se ci fossero attacchi, nessuno si avventurerebbe in questi luoghi dimenticate da tutti.
C’è un solo motivo per il quale ci fidiamo di Joe. Lo abbiamo conosciuto prima. È sicuramente un buon uomo. Sorridente, ride spesso. Lo abbiamo conosciuto in un hotel di Ouagadougou. Ha approcciato Am. parlando inglese (lei non parla francese) e ha cominciato a raccontare di quanto suo cugino fosse forte, un combattente per la patria. Un VDP. “Lui ti vede ma tu non lo puoi vedere” dice inneggiando le sue qualità di combattente ineccepibile. Un vero cacciatore della foresta. Rambo, che si nasconde, e ti scruta da lontano, conoscendo ogni lembo di terra in cui normalmente dà la caccia alle prede. “Vogliamo incontrarlo” diciamo. Certo, storia troppo interessante. Non solo è un VDP. Ma è il comandante dei VDP di Tanwalbougou. Nasce tutto così. Joe è un uomo di chiesa. Aiuta i ragazzi nell’educazione. Ma dobbiamo studiarlo un po’ prima di fidarci. Nessuno, in queste situazioni, si fida di nessuno. Quando ci porta da suo cugino, è molto fiero di presentarcelo. Si chiama Timoté. Lo intervistiamo fuori dalla sua casetta, dove la sua famiglia si è rifugiata durante gli attacchi, in un quartiere periferico di Fada. È una piccola costruzione in mattoni con a fianco una tenda per rifugiati dove hanno allestito un piccolo salotto molto semplice. L’intervista è una bomba. Mostra il suo coltello affilato e seghettato, ancora sporco di sangue. Ora mi chiedo se fosse il sangue di qualche jihadista oppure di qualche Peul, perché, durante l’intervista, senza molti peli sulla lingua dichiara apertamente che bisogna eliminarli. Bingo. Gli chiediamo quindi di visitare il suo villaggio e accetta. Essendo il comandante dei VDP della zona, è molto positivo come inizio. Ma in Burkina Faso, il governo ha capito come comportarsi con i giornalisti. Nessuno ha potuto vedere i VDP in azione o nelle loro zone. Così come ora, il governo proibisce ai giornalisti di parlare alle vittime rifugiatesi nei campi. E lo fa in maniera molto intelligente. È che come una donna che ti dà speranze e poi…sul più bello… adios, così il governo ti dà l’accredito dicendo: Bienvenue! Ma poi, quando si tratta di visitare gli sfollati o le zone sensibili, ci sono sempre le famose lettere ministeriali da richiedere, le quali, magicamente non appaiono mai. Che strano! Ma è una tecnica infallibile. Non possono essere accusati direttamente. E perciò, noi giornalisti ci ingegniamo giorno e notte per trovare alternative. Noi vuoi che parliamo alle vittime? Le chiamiamo nel nostro hotel. Non vuoi che andiamo a vedere i luoghi dei massacri? Bene, ci andiamo per vie traverse. Chiaramente il rischio aumenta esponenzialmente. Ma il nostro lavoro va fatto. Punto.
La nostra macchina si ferma di fronte al portone di un casolare sulla via principale di Tanwalbougou. Dopo qualche minuto, ecco che appare Timoté. È sulla sua moto gialla e blu. In testa porta un berretto invernale della Kappa (ci saranno 40 gradi). Non appena vede me, Costa e Am., il suo sorriso si allarga. Sembra felice di vederci. Gli abbiamo portato qualche cosa da mangiare come regalo, così come avevamo fatto la volta precedente. Qualche cipolla e un po’ di frutta. Intorno al collo, una cinghia gli sostiene il suo kalashnikov. L’arma è nuova, il fucile ha il calcio e le parti per reggerlo di plastica, invece che il classico legno. Non la possedeva quando era a Fada. Aveva solo la sua carabina da cacciatore e due coltellacci da macellaio.
Diventiamo subito l’evento annuale del villaggio. I “namsara” (bianchi), sono in città. Tutti vogliono vederli. Intorno a noi, una cerchia di bambini e donne. Non mi piace affatto. Dobbiamo andarcene in fretta, basta una chiamata per avvertire i jihadisti che siamo qui. Amanda dice che al massimo ci possiamo trattenere 45 minuti prima di alzare i tacchi e ripartire, secondo la sua analisi. L’obiettivo è vedere Timoté e i suoi uomini. I VDP, famosi e misteriosi perché nessun giornalista ha potuto vederli in azione, forse finalmente oggi saranno smascherati. E capisco tutta questa segretezza: dopotutto sono una milizia ufficiale che può macchiarsi di crimini senza mettere di mezzo il governo.
Joe dice che bisogna presentarsi prima alla Gendarmerie, ancora una volta, e che poi, se loro daranno il loro consenso, potremo svolgere il nostro lavoro con Timoté. Ecco come siamo finiti in quel quadrato della morte, la gendarmeria di Tanwalbougou, di fronte a poliziotti giovani, armati fino ai denti. Affabili ma fin troppo. Quasi a dire: “Stronzi, sappiamo cosa volete”. Costa e io chiediamo come mai ci siano proiettili. “Siete così coraggiosi, davvero” diciamo per tranquillizzarli con tono molto conciliatorio. Sorridono con il solito “Dieu merci”. Intanto, prendono le foto dei nostri documenti, delle press card. Ma dicono che per loro non ci sono problemi. Che siamo i benvenuti. Non ci lasciano però entrare nell’edificio piccolo e giallognolo. Quello crivellato e dove probabilmente si è consumata la tragedia dei prigionieri, lasciati morire di fame e di sete prima di essere uccisi. Timoté aspetta. Quando abbiamo il via libera dei poliziotti, usciamo dalla piccola base. “Ci siamo, dai, dai ,dai” mi rivolgo ad Am. come per incitarci. Ci siamo finalmente. Abbiamo l’accesso. Gli abbiamo fregati. Ma il tempo stringe. I gendarmi ci tengono fermi per almeno 40 minuti. Il tempo passa. Le 3.30 passate. Dobbiamo ripartire prima del calar del sole da Fada e quindi dobbiamo calcolare un’ora per arrivarci. “I jihadisti attaccano la notte solitamente” dice Abdullah, l’autista, uomo grande, grosso, silenzioso. Joe ci invita a tornare in macchina e attendere. Dopo 10 minuti di attesa, che sembra infinita, Am. è nervosa. “Perché non torna” chiede. Costa scende dalla macchina e va a vedere. Sono tutti riuniti ancora e seduti nello stesso posto. “Cazzo”, esclama lei. Io lo penso solamente, “non possono fregarci ora” dico fra me e me. Joe ritorna alla macchina. “Bad news” dice rivolgendosi a noi 3. Il sangue mi si gela. “Timoté è stato costretto dai gendarmi a chiamare un altro comandante che ha rifiutato. Ha detto che prima i VDP devono essere premiati”. Ma che cazzata. Premiati per cosa? Che scusa ridicola. Am. è furibonda. Io sono troppo innervosito per reagire. “Voglio tornare a fare una domanda ai gendarmi” dice lei con tono concitato. “Ok”. Scendiamo dalla macchina. Torniamo dai gendarmi. Sono sorpresi di rivederci. Ci accolgono un po’ meno cordialmente. Siamo meno leccaculo di prima. Si irritano immediatamente. Penso che sperassero di essersi liberati educatamente di noi. Am. vuole sparare in grande. Chiede di fare una domanda, ma il soldato rifiuta. “Ora basta, è dall’inizio che ci stanno disturbando” dice il poliziotto a Joe. Costa riprende Am. “non fare la domanda, è troppo pericoloso”. Io sono d’accordo. Il poliziotto non vuole proprio parlare. Rifiuta. Dice che dobbiamo parlare al capo ma che è fuori in missione e che ci chiamerà domani. S` chiaramente, come no. Infatti, prima era nell’ufficio di fianco. Am. continua a insistere di fare la domanda scomoda, la domanda sul massacro dei 12 Peuls. Io e Costa la fermiamo in tempo. Troppo pericoloso. Potremmo essere arrestati o, peggio, uccisi sulla via del ritorno. Per arrivare abbiamo mentito ai gendarmi, dicendo che volevamo visitare sì Timoté, ma perché era il cugino di Joe e volevamo vedere la sua famiglia. Non perché volevamo vedere le armi dei VDP e confermare un massacro insabbiato dal governo. Non ci avrebbero mai permesso di arrivare fino a qui. La convinciamo a desistere. Se lo avesse fatto, saremmo finiti nei pasticci per ricevere, inoltre, solo una risposta del tipo “no comment” o una risata generale. Chi lo sa, forse potevano davvero chiamare qualcuno per farci sparire nel nulla più totale.
Risaliamo in macchina. Delusi, affranti, abbattuti. Ci aspettano 100 km di strada terribile, almeno 6 ore di macchina per tornare a Ouagadougou. Ma non è il problema. Il problema è il fatto siamo andati nella tana del lupo rischiando che tornasse da un momento all’altro. Per giunta senza ottenere un cazzo! Niente, nulla! Rien, nada. Abbiamo sì confermato che Timoté è un comandante VDP, che è di Tanwaldougou e che forse è stato parte delle esazioni e dei massacri di alcuni Peuls, oltre che ammazzare terroristi con il suo coltellaccio. Ma non abbiamo ottenuto di più. Prima di ripartire ci avviciniamo ancora a Timoté, sempre sulla sua moto. Si presentano due suoi soldati. Eccoli che sbucano da ovunque. Esco rapidamente dalla macchina, accendo l’apparecchio fotografico, pronto a scattare. I soldati si allontanano. Uno si mette in mezzo, l’altro scappa. “Dove va?” – chiedo – “Non c’è più” mi risponde facendo un passo avanti minaccioso. Figlio di puttana, chiaramente lo penso. Non vogliono mostrarsi ai media. Nascondono qualcosa. Era comunque una bella foto. Torno in macchina. È ora di ripartire.
I 45km fino a Fada sono molto irritanti. Frustrati al massimo, nessuno parla. Proviamo a metterla sul ridere dopo un’ora, quando finalmente ci avviciniamo alla città e il rischio diminuisce. “Non ci posso credere” dico a me stesso. Ma dentro di noi non possiamo nascondere la delusione. I sorrisi sono falsi. Tutta la settimana di lavoro è stato un continuo viaggiare ore e ore in macchina, spesso per essere rifiutati, per non ottenere nulla. E prendendo rischi inimmaginabili, andando in zone rosse, pericolose, piene di terroristi o informatori. Lo stesso è successo nel campo di sfollati di Barsalogho, un villaggio diventato un immenso campo con più di 100 mila rifugiati dalle zone limitrofe nel centro-nord del paese. Il governo, sapendo che ci sono anche campi di Peuls, non vuole dare l’autorizzazione per un motivo ovvio. Siamo stati 4 ore in quel luogo, ultimo baluardo di presenza governativa prima del Sahel, del nulla, del caos, del terrorismo. Una zona non pericolosa, di più. Non tanto per essere uccisi, ma ancora: basta una chiamata. Per arrivare in queste zone non è mai un problema. Il problema è tornare vivi. Alla fine, anche se appoggiati da una Ong internazionale, non è servito a nulla.
Arrivati a Fada ci fermiamo. Sono le 5.30. Il sole sta già tramontando. Fra un’ora calerà la notte. Tiriamo un sospiro e decidiamo di intervistare una persona. Costa ha deciso di chiamarlo. Non accettiamo il fatto di tornare a casa a mani vuote. È un Peul, una vittima di massacri. Ne ha chiamati altri due per testimoniare. Alcuni di loro sanno cos’è successo a Tanwalbougou perché hanno seppellito i cadaveri. Poi ripartiamo. Distrutti. Sono le 6.30. 11 ore che siamo seduti in macchina. Il morale è a pezzi. Dopo 20 chilometri, buchiamo pure una gomma. “Ma è possibile che con te buco sempre una gomma?” dico ridendo ad Am., ricordando il giorno in cui bucammo una gomma in una trincea armena. L’autista, che io ho sempre chiamato Abdullah (e così tutti noi, prima che Costa scoprisse che non fosse il suo vero nome guardando alla sua patente di guida e scatenando una risata nervosa che ci ha fatto dimenticare per un attimo la situazione pietosa nella quale ci troviamo), ferma l’auto. È notte, in mezzo al nulla. In un villaggio dove non c’è una luce. Prendiamo il crick e gli attrezzi per cambiare la gomma. Ma non riusciamo a svitare i bulloni. Quello che ha avvitato i bulloni l’ultima volta penso li debba avere incollati alla ruota, perché non riusciamo nemmeno a spostarli di un decimo di millimetro. Neppure con il mio peso e quello di Abdullah messi insieme. Nel mentre, Joe chiama in soccorso alcuni ragazzi che portano un tubo, il quale serve per fare leva sulla tenaglia e sbloccare la situazione. Geni. Ci aiutano a installare il crick e a cambiare la ruota. I ragazzi sono gentili e si impegnano. Si sporcano tutti di sabbia rossa. Siamo tutti d’aiuto, per cercare di capire dov’è meglio mettere il crick. Io e Abdullah svitiamo la ruota di scorta per cambiarla. Perdiamo in totale un’ora prima di ripartire. Am. non sopporta più niente e nessuno. La difficoltà della burocrazia, di fare ogni piccola cosa. Il modo di fare della gente. È difficile da sopportare, soprattutto dopo così tante ora spese in macchina soffrendo, con il culo a pezzi per le botte, il calore che ti rende madido di sudore, la polvere che si prende ogni tuo singolo pezzetto di pelle e ti fa starnutire come se fossi allergico. È demoralizzante. L’alternativa è spesso solo quella di salvare l’irreparabile, non di rigirare a tuo favore la situazione. Ciò vuol dire che se le cose vanno male, devi cercare di non farle andare peggio. Ma ti scordi di farle andare meglio.
Dopo aver cambiato la ruota con quella di scorta, ripartiamo mezzi tramortiti. Stanchi. Sono ormai le 22.30. Tardi. Abbiamo di fronte a noi ancora 20 chilometri di strada bucata e sterrata prima dell’asfalto. Per chiarire il concetto, su una strada del genere si guida in maniera scomoda. Si accelera e si frena bruscamente per attraversare buche grosse come fossati, si accusare colpi brutali al sedere e di picchiare la testa ogni volta che la macchina passa un po’ più velocemente su una buca. Il veicolo è spesso inclinato. È una vera rottura. Mi addormento, non appena usciamo dall’inferno. Ormai è fatta, mi dico. Gli ultimi 180 chilometri sono una passeggiata. Ma a 82 chilometri da Ouagadougu, alle 23.30 – per volere del divino forse – qualcosa di inatteso ci sorprende: una colonna infinita di camion sulle due corsie. Tutto bloccato. Non è per nulla una buona notizia. Anzi, è una pessima notizia. Quando ci sono incidenti gravi sulle strade africane, non ci si libera prima di ore. Ma Joe salta fuori dal 4x4, dicendo che possiamo trovare una soluzione. Io, mezzo addormentato, lo seguo immediatamente mentre Am. perde definitivamente la pazienza scaraventando una serie di cazzotti contro il sedile anteriore. Io e Costa ci scambiamo uno sguardo rassegnato. Da un lato la capisco, non è facile da accettare, specialmente dopo una giornata nera come questa. Ma dall’altro, se non vogliamo rimanere bloccati per ore nella stessa posizione, dobbiamo muoverci per trovare una via alternativa. Di solito, di fianco all’asfalto, ci sono sempre piste di terra, proprio per le ragioni descritte sopra.
Seguo Joe, facciamo due calcoli e capiamo che è possibile far passare l’auto in mezzo a un mercato, deserto a quell’ora. Spostiamo tavoli e facciamo attraversare a Abdullah qualche capannone. Costa e Am. ci raggiungono per aiutarci. La macchina avanza bene per qualche centinaio di metri fino a che il mercato deserto finisce e inizia il nulla. Di fianco, sulla careggiata la fila di camion è infinita. Avanziamo con le torce correndo per vedere se c’è una strada da percorrere di fianco a quella principale e indichiamo all’autista di seguirci. Ma la strada sterrata finisce. C’è un fossato e bisogna attraversare il ponte. Nuova sfida. A volte, una serie di camion passa dalla corsia inversa. Vuol dire che il traffico si sblocca, ma a sprazzi. Diciamo ad Abdullah di attendere. Non appena i camion dell’altra corsia saranno passati, lui deve andare il più forte possibile sulla corsia inversa per guadagnare più metri possibile e infilarsi nel primo buco fra i camion non appena scorge un veicolo arrivare.
Appena l’ultimo camion attraversa dal ponte, gli do il via. Parte all’impazzata, ci semina, sparisce dietro una curva. Chissà dove cavoli è andato a finire. Allora, tutto il gruppo comincia a correre di fianco alla strada. I camionisti che gridano. Ridono, vedendo tre stranieri correre come pazzi. Io ne approfitto per sgranchirmi le gambe e fare una corsetta. Camminiamo insieme sul ciglio della strada, facendo attenzione a non farci investire da qualche camion. Contemplo il silenzio allo stesso momento, della notte e il cielo stellato. Infine, dopo un chilometro di marcia, vediamo finalmente la fine della colonna. Un camion è messo di traverso, ecco perché il traffico è bloccato. Vediamo Abdullah a qualche centinaio di metri dalla fine della colonna. Esultiamo. Avremo perso mezz’ora ancora, ma alla fine ce la siamo cavata in maniera più che esaustiva. La macchina si rimette in moto e ripartiamo alla volta della capitale. Ma dopo un chilometro, ancora colonna. Un altro camion è fermo sulla corsia opposta. È completamente distrutto. Riusciamo a passare tutti e finalmente, dopo l’ennesimo colpo al cuore, ce ne andiamo. Rimetto i miei auricolari che usavo per dormire. Ascolto un po’ di musica italiana. Mi ricorda casa. A volte ne ho bisogno. Casa, dopotutto, mi manca spesso. Non è vero che chi viaggia non ha un punto fisso. È solo più resistente nel lasciare la sua casa per motivi di grandezza maggiore. Rimane pur sempre un atto di coraggio. Ecco perché, chiunque lasci casa per ragioni più grandi o è costretto a farlo, deve per forza sentire una mancanza intollerabile della propria terra, un richiamo costante. Nessuno dimentica casa propria.
Alle 2 del mattino lasciamo Joe nel suo villaggio alle porte di Ouagadougou. Proseguiamo fino all’hotel Chez Giuliana, dove alloggiamo. Un alberghetto tenuto da una torinese venuta 20 anni fa in Burkina Faso. Quando venni qui insieme al mio amico Ricky per visitare la sua ragazza Giorgia e la sua amica Laura, nel 2011, ci fermammo anche qui. La sua faccia me la ricordavo vagamente.
Sapere di tornare e sentir parlare la propria lingua non ha prezzo. Alle 2 del mattino Giuliana è ancora sveglia. Ci vede moribondi e penso si sia impietosita. “Hai qualcosa da mangiare?” le chiedo disperato. In effetti, a parte bere non abbiamo toccato niente da mangiare. Il nervosismo e il tempo non hanno permesso allo stomaco di aprirsi. “Ho delle pizze surgelate del Carrefour che sono stranamente buone” risponde sorridendo. E pizze surgelate siano. Insieme a lei, ci rechiamo in cucina, accendiamo il forno e mettiamo le pizze a scaldare mentre stappiamo una birra per rilassarci e calmare gli animi. Giuliana, nei giorni passati, mi ha spiegato bene come funziona il paese, come la gente ragiona. Abbiamo fatto delle discussioni molto interessanti e senza peli sulla lingua. Parlavamo del potere della stregoneria e del mistico, che ha un’influenza molto forte. Non solo qui ma in molte altre regioni. “Una volta” – racconta Giuliana divertita “Un signore omosessuale ha toccato le parti intime di una delle nostre guardie che era venuta ad aprire la porta ancora in asciugamani. La guardia si è seduta e non parlava. Mio figlio andò a chiedergli se tutto andasse bene e lui rispose che d’ora in poi non avrebbe mai più avuto un’erezione perché quello là gli aveva dato una pacca laggiù. Mio figlio gli disse di aspettare di andare a casa da sua moglie per provare se fosse vero o meno. Ma cosa vuol dire, io ho sempre un’erezione risponde la guardia. Disse anche al cliente che aveva commesso il danno di non uscire dalla camera per un po’ ”. Che risate. L’atmosfera è rilassante e dopo giornate di lavoro dove non funziona nulla, è il posto giusto dove tornare.
Mi corico nel mio letto, dopo una doccia gelida, alle 3 del mattino. Senza parole. Le nostre facce lo dimostrano. Sconcertate. Voglio solo dormire qualche ora. Alle 8 si ricomincia di nuovo. Non c’è pace. Am. dice: “Non vedo l’ora di andarmene da qui”. Io no, ormai non me la prendo più. Per ora, solo le zanzare mi continuano a infastidire. Ma la missione a Tanwalbougou difficilmente me lo scorderò.