“La prima volta che ho aiutato qualcuno a scampare dalle torture è stato nel 2012. Un ragazzo era in prigione, la famiglia mi aveva contattato dal suo paese di origine e non sapeva come fare per farlo uscire vivo. Ho contattato qualche amico libico fino a che ho avuto la certezza che avevo trovato la persona giusta. Ho chiesto delle prove. Delle foto, il nome. Ho chiesto di mostrarmelo. Era in mano a criminali che lo avevano rapito. Poi, mi sono fatto inviare dalla famiglia i soldi necessari, circa 1000 euro all’epoca, per pagare il riscatto”. È l’inizio del racconto di Leo, un cinquantenne camerunese seduto su una sedia di un bar nel centro di Tripoli, la capitale libica oggi sott’assedio. Per sbarcare il lunario fa il decoratore d’interni per una piccola società locale. Ma da qualche anno ha anche un’altra missione: salvare giovani migranti subsahariani dalle torture e i soprusi inflitti loro da un business creatosi proprio intorno al loro disperato viaggio verso quello che credono sia l’El Dorado: l’Europa.
Leo non ha paura di niente. Conosce bene il sistema libico ormai. Con l’inizio dell’interminabile guerra civile nel lontano 2012, Leo ha iniziato a salvare una marea di persone vittime di sevizie o detenzioni arbitrarie da parte di criminali o dalle autorità del Governo di Accordo Nazionale (GNA). I centri di prigionia si sono sempre di più riempiti e sono stati costruiti e mantenuti per anni anche da fondi europei. Con il passare degli anni e l’inasprirsi del conflitto, i migranti sono diventati frutto di grandi guadagni per molte fasce della popolazione che ha cominciato a dar la caccia a qualsiasi cosa potesse portare qualche soldo. I migranti, persi, sono caduti tutti in trappola con il tempo, costretti a pagare enormi riscatti per uscire di prigione o non essere torturati.
“È tutta una questione di soldi. I libici hanno capito come guadagnare dai traffici migratori. E la libertà è diventata molto cara per i nuovi migranti. I soldi molto spesso non ce li hanno, vedendosi costretti a chiamare e chiedere aiuto alle famiglie nei paesi di origine, indebitandole. Dal 2012 a oggi però, sono riuscito a salvare molte vite”.
Dal momento in cui ha salvato la sua prima vita però, Leo non ha mai cercato a nessun guadagno se non quello personale: vedere altre persone felici. “Se i soldi non sono troppi, provo a usare i miei risparmi. Altrimenti devo chiedere alle loro famiglie. Oppure al mio capo libico. A volte anche lui ci prova. È una brava persona. Una volta che libero qualcuno, lo ospito a casa mia il tempo necessario perché si riprenda e si chiarisca le idee. Anche io rischio di essere catturato. Non farebbero differenza se i soldati entrassero in casa mia e vedessero tutti i rifugiati ai quali do un letto e un pasto caldo. Bisogna capire il contesto in cui vivono: nei ghetti, o nelle prigioni, vivono con una tale condizione di stress, che nemmeno ascoltandoli sarebbe possibile capire cosa stanno vivendo”.